Feeling Good - La paradossalità della felicità assoluta
Inanzitutto, poniamo la felicità assoluta, l'atarassia e l'aponia di Epicuro, come limite invalicabile, condizione di piacere massimo, o beatitudine divina. Ora, iniziamo con la definizione temporale della felicità assoluta. Per essere tale, la felicità deve aver perso l'ultino desiderio che separa l'uomo da essa, ossia quello di mantenerla. Sarebbe contraddittorio se fosse assoluta ma permanesse comunque un desiderio, quindi l'unica possibilità è quindi l'eternità di essa, in grado di disinteressarci dal fattore temporale - e già questo escluderebbe l'uomo che, come essere vivente, include la morte sicura -. Infatti, riprendendo proprio il pensiero epicureo, solo la divinità è beata e quindi totalmente disinteressata, ossia priva di desideri o ambizioni, perchè apputo eterna. Supponiamo quindi che esista un uomo in condizione di felicità assoluta e cerchiamo di analizzarlo: se in condizione di felicità assoluta, l'uomo non avrà nessun bisogno e perciò non cambierà mai di fare ciò che gli sta procurando la felicità assoluta. Analizzando con la ragione questo, è innegabile come l'uomo, più si avvicini dunque alla felicità assoluta più ne diventa schiavo, più la sua libertà si riduce fino ad annullarsi. Un uomo felice in modo assoluto non avrà la capacità di fare nulla, poiché non avrà desideri e volontà a spingerlo. Si può anche notare come l'uomo felice in modo assoluto debba essre quasi sempre solo: infatti, se la condizione di felicità assoluta impone un mantenimento costante di se stessa, allora non potrà essere basata su un rapporto interpersonale con qualcuno che non sia felice in modo assouto. Se infatti lo fosse, essendo un uomo felice in modo non assoluto dotato di desideri e volontà di cambiamento, sarebbe contrario all'immutabile condizione di felicità assoluta, spezzandola.
Per citare due esempi, scelgo due storie religiose trattandole in modo laico e distaccato.
La prima è tratta dalla Genesi, il mito di Adamo ed Eva. Possiamo sostenere come loro fossero nella condizione più vicina alla felicità assoluta a cui un uomo possa ambire, perché creati direttamente da Dio e "sorvegliati", per così dire, direttamente, nel loro Paradiso Terrestre. Se la loro condizione di felicità, che possiamo definire assoluta, fosse stata paradossalmente libera, allora probabilmente non avrebbero mangiato il frutto del Diavolo. Ciò che li ha spinti a mangiare il frutto proibito è stata la loro condizione umana che, incatenata dalla felicità, bramava libertà - sempre tenendosi in tema di paradossi -. Il frutto, il divieto, li interpreto entrambi come via di fuga dalla prigione che era l'Eden, come possibilità di riottenere la libertà, perché per loro infrangere quella regola era l'unica possibilità di cambiamento, l'unico desiderio concesso.
Il secondo esempio riguarda Gesù Cristo che comunque, bene o male, tutti riconoscono come importante filosofo, almeno. Se Cristo, addirittura secondo la religione cristiana figlio di Dio e parte integrante di esso - ricordo che la condizione presupposta di esistenza di un divinità è la beatitudine -, avesse raggiunto la felicità assoluta, non avrebbe sentito il bisogno di portare al mondo un nuovo credo e persino sacrificarsi per esso. Il disagio che la naturale condizione empatica umana gli provocava era abbastanza da separarlo dalla felicità assoluta e quindi, l'unico modo per raggiungerla, sarebbe stato il bene per ogni individuo, cosa che, come oggi possiamo notare, non è purtroppo accaduta. Perciò è proprio la parte umana del Cristo a impedirgli il raggiungimento della felicità assoluta, e se consideriamo idealmente lui come l'uomo più vicino a Dio - potevamo comunque scegliere Maometto o altri profeti di altre religioni analoghe - e metabolizziamo che persino lui non ha raggiunto la beatitudine, allora possiamo definitivamente vederla come qualcosa di ideale ed irraggiungibile, lo zero assoluto del piacere.